Un manoscritto “doppio” del XIII secolo per raccontare la vita di san Guglielmo da

[Articolo estratto da https://www.finestresullarte.info/]

La Biblioteca Statale di Montevergine conserva un manoscritto del XIII secolo, la “Legenda” di san Guglielmo, che racconta vita e miracoli del santo che fondò l’abbazia di Montevergine. È un manoscritto doppio perché risulta dall’unione di due codici.

Il manoscritto numero 1 del catalogo della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montevergine coincide con quello forse più noto e studiato della biblioteca del santuario di Montevergine di Mercogliano, in Irpinia: si tratta della Legenda de vita et obitu de Sancti Guilielmi confessoris et heremite, che raduna in realtà due manoscritti, uno in scrittura beneventana e l’altro in scrittura gotica, riuniti in un unico volume composto da 109 fogli rimarginati per dar loro le stesse dimensioni, e rilegati con una coperta, risalente al Seicento, di marocchino rosso con fregi dorati. Il libro, del XIII secolo, tramanda la vita e i miracoli di san Guglielmo da Vercelli, noto anche come Guglielmo di Montevergine (Vercelli, 1085 – Abbazia del Goleto, 1142), monaco errante e abate, fondatore dell’abbazia di Montevergine. La Legenda racconta i viaggi e i miracoli di san Guglielmo, che viene seguito in tutti i suoi spostamenti: il pellegrinaggio a Santiago di Compostela per vedere le reliquie di san Giacomo, il viaggio in Italia con l’intento di andare a Gerusalemme, il soggiorno ad Atripalda e quello a Montevergine.

Il manoscritto di Montevergine ha sempre costituito la principale fonte per conoscere l’agiografia di san Guglielmo da Vercelli, tanto che è molto antica anche la prima attestazione del manoscritto: troviamo infatti la Legenda menzionata nel Martyrologium virginianum del 1492. Il volume ebbe una certa fama anche in epoca di Controriforma: il testo, spiega la studiosa Veronica De Duonni nel suo recente studio (2022) del materiale su pergamena della Biblioteca di Montevergine, “attirò l’attenzione degli eruditi e studiosi delle tradizioni agiografiche sulla spinta degli interessi stimolati dal Concilio di Trento”. Fiorirono inoltre all’epoca le agiografie del santo basate sulla Legenda, che conobbe un rinnovato interesse nel XX secolo, epoca in cui l’opera cominciò a essere vagliata dagli studiosi di antichi manoscritti, e nel 1962 viene pubblicata la prima edizione critica della Legenda, opera di padre Giovanni Mongelli, che è anche il primo a occuparsi della decorazioni del codice.

Proprio Giovanni Mongelli studiò anche il problema dell’autografia dei due manoscritti, che lo studioso riteneva derivanti da un antigrafo perduto (prima di lui invece si pensava che il gotico fosse la copia del beneventano, ipotesi da scartare per le troppe incongruenze). Per lo stile e per certi contenuti che si possono leggere nei vari capitoli della Legenda, Mongelli arrivò a concludere che l’agiografia di san Guglielmo doveva essere opera di ben tre autori diversi: veniva quindi messa in dubbio la tradizionale attribuzione a Giovanni da Nusco, discepolo di san Guglielmo, che in passato era stato riconosciuto come autore dell’intera Legenda. L’ipotesi di Mongelli non è ancora stata messa in discussione e dunque oggi si tende ad accettare l’idea che l’opera si debba a tre diverse mani.

Il primo autore, a cui si attribuiscono i capitoli che vanno dal I al XVI, doveva essere un monaco che aveva scarsa familiarità con Montevergine, dato che le sue descrizioni delle terre attorno all’abbazia sono sommarie, e in più il suo giudizio sui monaci è troppo severo. Al contrario, il copista è molto preciso quando parla dell’area dove Guglielmo fondò l’abbazia del Goleto, il luogo dove il santo scomparve nel 1142, così come riporta nei dettagli la vita “austera ed edificante” di questo monastero, che viene dunque messo in buona luce, al contrario di Montevergine. La conclusione, secondo Mongelli, è che il primo autore doveva essere un monaco del Goleto, e altro non si può aggiungere. Al secondo autore si attribuiscono i capitoli XVIII, XX, XXI e XXII: in questo caso si tratta, secondo Mongelli, di un monaco di Montevergine, dal momento che all’inizio del diciottesimo si legge che l’autore apprende i fatti narrati direttamente da Giovanni da Nusco, di cui lo stesso autore fornisce, nel ventesimo capitolo, un profilo “indimenticabile” secondo Mongelli, ricordando come Giovanni fosse prima laico, e poi sacerdote e grande contemplativo, rimasto a Montevergine anche dopo la partenza definitiva di Guglielmo. Inoltre, il secondo agiografo appare meglio informato del primo su tutto ciò che riguarda il monastero di Montevergine. Infine, il terzo autore, riscontrabile nei capitoli XVII, XIX, XXIII, XIV e nel Prologo: si tratterebbe ancora di un monaco del Goleto, dal momento che le parti contenute in questi capitoli trattano in maniera accurata fatti avvenuti in questo monastero.

Il codice in caratteri gotici è considerato all’unanimità quello di minor pregio: si presenta con una pergamena di minor valore, con maiuscolette in nero, iniziali prive di particolare interesse e via dicendo, ragion per cui si trattava di un’edizione sicuramente modesta. E per tale ragione, l’unità gotica è molto più consumata rispetto a quella beneventana: l’aspetto signorile di quest’ultima, infatti, “ha tenuto lontano quasi sempre le mani posteriori dal toccare il testo dell’antico amanuense”, spiega Mongelli, “invece il codice gotico ha visto operare su se stesso numerose manomissioni, alle quali hanno dato l’abbrivo le troppo frequenti espunzioni dello stesso amanuense”. Secondo Mongelli, il codice beneventano era quello più antico, mentre Francesco Panarelli ha avanzato l’ipotesi secondo cui la copia in scrittura beneventana potrebbe essere stata prodotta al Goleto, al pari di quella in caratteri gotici, e sarebbero entrambe giunte successivamente a Montevergine per essere unite. C’è, infine, una curiosità: nell’unità beneventana, in una delle capitali miniate, una N, in oro contornata di verde e rosso, è miniata la figura di san Guglielmo, che si presenta con barba, aureola, tonaca rossa, scapolare, cappuccio a punta, mentre tiene la croce con la mano destra e un bastone con la sinistra (troviamo peraltro una figura simile nell’iniziale dell’unità gotica). È una figura che non si distingue certo perché particolarmente pregevole, anzi, è stata realizzata con una certa rozzezza: è però interessante notare come il monaco che si occupò delle decorazioni di questo codice abbia voluto, a suo modo, omaggiare il protagonista della vicenda narrata.

 

La coperta della Legenda

L’inizio del manoscritto in scrittura Beneventana con miniatura del Santo

Fine del manoscritto in scrittura beneventana e inizio del manoscritto in scrittura gotica

Scrittura beneventana

Scrittura gotica

Un manoscritto “doppio” del XIII secolo per raccontare la vita di san Guglielmo da

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La Biblioteca Statale di Montevergine conserva un manoscritto del XIII secolo, la “Legenda” di san Guglielmo, che racconta vita e miracoli del santo che fondò l’abbazia di Montevergine. È un manoscritto doppio perché risulta dall’unione di due codici.

Il manoscritto numero 1 del catalogo della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montevergine coincide con quello forse più noto e studiato della biblioteca del santuario di Montevergine di Mercogliano, in Irpinia: si tratta della Legenda de vita et obitu de Sancti Guilielmi confessoris et heremite, che raduna in realtà due manoscritti, uno in scrittura beneventana e l’altro in scrittura gotica, riuniti in un unico volume composto da 109 fogli rimarginati per dar loro le stesse dimensioni, e rilegati con una coperta, risalente al Seicento, di marocchino rosso con fregi dorati. Il libro, del XIII secolo, tramanda la vita e i miracoli di san Guglielmo da Vercelli, noto anche come Guglielmo di Montevergine (Vercelli, 1085 – Abbazia del Goleto, 1142), monaco errante e abate, fondatore dell’abbazia di Montevergine. La Legenda racconta i viaggi e i miracoli di san Guglielmo, che viene seguito in tutti i suoi spostamenti: il pellegrinaggio a Santiago di Compostela per vedere le reliquie di san Giacomo, il viaggio in Italia con l’intento di andare a Gerusalemme, il soggiorno ad Atripalda e quello a Montevergine.

Il manoscritto di Montevergine ha sempre costituito la principale fonte per conoscere l’agiografia di san Guglielmo da Vercelli, tanto che è molto antica anche la prima attestazione del manoscritto: troviamo infatti la Legenda menzionata nel Martyrologium virginianum del 1492. Il volume ebbe una certa fama anche in epoca di Controriforma: il testo, spiega la studiosa Veronica De Duonni nel suo recente studio (2022) del materiale su pergamena della Biblioteca di Montevergine, “attirò l’attenzione degli eruditi e studiosi delle tradizioni agiografiche sulla spinta degli interessi stimolati dal Concilio di Trento”. Fiorirono inoltre all’epoca le agiografie del santo basate sulla Legenda, che conobbe un rinnovato interesse nel XX secolo, epoca in cui l’opera cominciò a essere vagliata dagli studiosi di antichi manoscritti, e nel 1962 viene pubblicata la prima edizione critica della Legenda, opera di padre Giovanni Mongelli, che è anche il primo a occuparsi della decorazioni del codice.

Proprio Giovanni Mongelli studiò anche il problema dell’autografia dei due manoscritti, che lo studioso riteneva derivanti da un antigrafo perduto (prima di lui invece si pensava che il gotico fosse la copia del beneventano, ipotesi da scartare per le troppe incongruenze). Per lo stile e per certi contenuti che si possono leggere nei vari capitoli della Legenda, Mongelli arrivò a concludere che l’agiografia di san Guglielmo doveva essere opera di ben tre autori diversi: veniva quindi messa in dubbio la tradizionale attribuzione a Giovanni da Nusco, discepolo di san Guglielmo, che in passato era stato riconosciuto come autore dell’intera Legenda. L’ipotesi di Mongelli non è ancora stata messa in discussione e dunque oggi si tende ad accettare l’idea che l’opera si debba a tre diverse mani.

Il primo autore, a cui si attribuiscono i capitoli che vanno dal I al XVI, doveva essere un monaco che aveva scarsa familiarità con Montevergine, dato che le sue descrizioni delle terre attorno all’abbazia sono sommarie, e in più il suo giudizio sui monaci è troppo severo. Al contrario, il copista è molto preciso quando parla dell’area dove Guglielmo fondò l’abbazia del Goleto, il luogo dove il santo scomparve nel 1142, così come riporta nei dettagli la vita “austera ed edificante” di questo monastero, che viene dunque messo in buona luce, al contrario di Montevergine. La conclusione, secondo Mongelli, è che il primo autore doveva essere un monaco del Goleto, e altro non si può aggiungere. Al secondo autore si attribuiscono i capitoli XVIII, XX, XXI e XXII: in questo caso si tratta, secondo Mongelli, di un monaco di Montevergine, dal momento che all’inizio del diciottesimo si legge che l’autore apprende i fatti narrati direttamente da Giovanni da Nusco, di cui lo stesso autore fornisce, nel ventesimo capitolo, un profilo “indimenticabile” secondo Mongelli, ricordando come Giovanni fosse prima laico, e poi sacerdote e grande contemplativo, rimasto a Montevergine anche dopo la partenza definitiva di Guglielmo. Inoltre, il secondo agiografo appare meglio informato del primo su tutto ciò che riguarda il monastero di Montevergine. Infine, il terzo autore, riscontrabile nei capitoli XVII, XIX, XXIII, XIV e nel Prologo: si tratterebbe ancora di un monaco del Goleto, dal momento che le parti contenute in questi capitoli trattano in maniera accurata fatti avvenuti in questo monastero.

Il codice in caratteri gotici è considerato all’unanimità quello di minor pregio: si presenta con una pergamena di minor valore, con maiuscolette in nero, iniziali prive di particolare interesse e via dicendo, ragion per cui si trattava di un’edizione sicuramente modesta. E per tale ragione, l’unità gotica è molto più consumata rispetto a quella beneventana: l’aspetto signorile di quest’ultima, infatti, “ha tenuto lontano quasi sempre le mani posteriori dal toccare il testo dell’antico amanuense”, spiega Mongelli, “invece il codice gotico ha visto operare su se stesso numerose manomissioni, alle quali hanno dato l’abbrivo le troppo frequenti espunzioni dello stesso amanuense”. Secondo Mongelli, il codice beneventano era quello più antico, mentre Francesco Panarelli ha avanzato l’ipotesi secondo cui la copia in scrittura beneventana potrebbe essere stata prodotta al Goleto, al pari di quella in caratteri gotici, e sarebbero entrambe giunte successivamente a Montevergine per essere unite. C’è, infine, una curiosità: nell’unità beneventana, in una delle capitali miniate, una N, in oro contornata di verde e rosso, è miniata la figura di san Guglielmo, che si presenta con barba, aureola, tonaca rossa, scapolare, cappuccio a punta, mentre tiene la croce con la mano destra e un bastone con la sinistra (troviamo peraltro una figura simile nell’iniziale dell’unità gotica). È una figura che non si distingue certo perché particolarmente pregevole, anzi, è stata realizzata con una certa rozzezza: è però interessante notare come il monaco che si occupò delle decorazioni di questo codice abbia voluto, a suo modo, omaggiare il protagonista della vicenda narrata.

 

La coperta della Legenda

L’inizio del manoscritto in scrittura Beneventana con miniatura del Santo

Fine del manoscritto in scrittura beneventana e inizio del manoscritto in scrittura gotica

Scrittura beneventana

Scrittura gotica