GUGLIELMO

Emanuela Sica

Incipit 

Quale destino è scritto nel cuore dell’uomo se questo viene infiammato dalla voce di Nostro Signore che dall’indaco muove figure di luce tra le nubi canti d’amore a scendere nei cunicoli dei pensieri e germogliare floridi nelle vene rianimando ossa, muscoli, pelle nutriti dal chiarore spostando lontane, mille e mille anni, le tenebre? In questo carme si narra di Guglielmo da Vercelli che vestì i panni del pellegrino per devota speranza reale sacrificio cucì nei sentieri del suo corpo per edificare un tempio alla fede che incrollabile maturava nelle albe come tralci di vite preziosi doni da portare alle generazioni come testamenti di fede. Nel suo animo, ancorché acerbo, trovò rifugio lo Spirito Santo che ampliava, giorno per giorno, le sue ali nei respiri insufflando ossigeno di beatitudine sino a farne il suo più consacrato dei servitori.

Continua nella lettura e nell'ascolto

I
In alleanza con il giglio della Vergine
nel silenzio che plasma universi nella mente
di chi si genuflette ai misteri del Cristo
non tarda vermiglia l’alba di consacrazione
all’ascolto della parola che diventa Sacra sulla lingua
muovendosi come litanie tra rose e spine.
Antico corpo di preghiera nelle membra di ragazzo
sì liquefa negli occhi al riflesso del sole che mostra
eserciti d’angeli a placare le acque dai demoni
al passaggio della storia sul sentiero dell’andare.
Guglielmo era questo abitare il movimento
seguiva il disegno delle ginestre e dei tratturi
comprendeva echi d’eternità nei trifogli
nelle querce che fissavano le lontananze
nei fuochi fatui della notte.
La sua tela dipingeva pellegrino
senza indugiare sul coraggio di perdersi nei vuoti
sfamandosi con la presenza di Dio.
Per raggiungere Santiago de Compostela immolò
le morbide piante dei piedi al dolore,
ricucendo pietre, preghiere, polvere, pentimento, senza sosta.
In cammino, nel sentiero della grazia che si abbandona
alla volontà di compiacere l’Altissimo, egli fu il primo
a compiere il trapasso spirituale dell’uomo al Santo
precedendo la scelta di Francesco ad Assisi.
Sconfinato era il mistero di luce che si compiva
nella purezza del suo animo destinato a tessere
grandi intrecci con le vite altrui e con quelle dei Santi.
Prim’ancora di quel viaggio ebbe alloggio a Melfi
ove delle Sacre scritture fece sfoggio mirabile
nel puntale del linguaggio come se quelle parole
fossero già scritte nella memoria dello spirito
e solo poi impresse sulle preziose pergamene
ricevute in dono come gratitudine.
Allontanatosi da questi luoghi fu accolto
come fratello ed ospite da Pietro “timoroso di Dio”
sul Monte Solicolo ove, leggenda narra, che
mosso a compassione “rianimò” le pupille spente
di un uomo cieco ridandogli la vista.
Chi dei testimoni esternò il prodigio e chi la taumaturgia
fusero la sua fama a renderne illustre il nome
già santo prima dei tempi.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO I
II
Dei suoi quattordici anni si liberò presto
come di un abito inutile, rinunciò agli orpelli
al casato, ai titoli nobiliari, rivestendosi di un grezzo saio
e nudi piedi nel 1099.
Furono cinque anni di passi, pane, acqua, cilicio,
colloquiando con Dio e la fiamma ardente di Cristo
nell’iride accesa dalla fede senza il fardello della paura.
Nel giro arioso di scirocco e richiami alla devozione
volle darsi pentimento “macerando la carne“
durante il cammino in uno al supplizio del digiuno.
Quand’ebbe accesso alla destinazione anelata
e portò sull’altare di Santiago le perle sanguinanti
dei suoi affanni unite alle preci costanti
per la salvezza dell’umanità dal peccato
non mise in conto la necessità d’interrompere
la peregrinazione bensì scrutò lontano e oltre
avendo intenzione d’imbarcarsi per Gerusalemme.
Del che discese lungo la dorsale desideroso di salpare
per la più Santa delle terre.
A Ginosa, conobbe Giovanni da Matera
chiamandolo per nome come amico
senza desistere dal viaggio seppur esortato
dal futuro Santo che gli anticipò sventura.
Non comprese verità celata nei segni
screziati d’inchiostro rappreso nei cieli
come porte che s’aprono alla predizione
perché nessun piano regge il confronto
con le architetture di Dio, con le improvvise svolte
o curve o dirupi in cui cade ma si salva chi a lui s’affida.
In Puglia s’arenò il viaggio per violento assalto.
Delinquenti lo presero, depredandolo.
Da quella triste rapina delle poche cose che aveva
l’antitesi ricevette come dono, comprese la volontà
di quella mano Onnipotente che muove tutto
che dalla cenere fredda rinvigorisce il fuoco.
Architravi presero vita davanti ai suoi occhi
terra e firmamento schiusero i miraggi
in concretezza, come argilla che riceve forma
dimensione precisa nei palmi trasparenti di Dio
consegnata come destino nelle mani del pellegrino.
Si occupò di Guglielmo, Giovanni, che curò le ferite
ricomponendo le membra doloranti
edificando la necessità di starsene calmo
senza fuggire nel vento e stringendo alleanze
con la terra italica e spezzando il pane del Cristo
come servo allontanando l’idea di partire.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO II
III
Muschio crebbe e si avviluppò nello sguardo
assorbendo il desiderio che spirava da Gerusalemme
l’orizzonte di terre più vicine prese lo spirito
senza traversare le acque, ricamando preci e miracoli
tra le acerbe montagne del sud, le più disabitate.
Un segno più grande resta impresso nella carne
capovolgendo la missione altrove in assoluta quiete
e pegno di restanza che bevve come calice
d’affidamento alla volontà di Dio.
Nel guarire dalle innumerevoli lacerazioni
che lacunari sofferenze infliggevano
anche alla sua fermezza di allontanarsi da quei confini
ebbe a conversare con Giovanni e un’apparizione.
I due verbi si fecero incendi delle incertezze
cantici soavi di sinapsi sfibrarono la rotta
divelte le nebbie dei dubbi apparì categorica
la richiesta del Signore che esigeva di fermare
il futuro in Italia e, per confutare i suoi dubbi
come vene d’edera in visione all’iride
ramificò l’abbandono alla volontà del Re del mondo
seminando, nella mente fertile, l’idea
dell’annunciazione alla Vergine in filari di piante
e croci sui monti più alti per simboleggiare
la Congregazione nascente.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO III
IV
“Licenziatosi dall’Abbate Giovanni”
nel sentiero del cammino in convivio
tra recesso e suppliche consumò un anno
vedendo e osservando ove poter edificare
la parola di Dio e farne altare in Chiese e Monasteri
sperando di intercettare un segno ove
“dar principio alla nuova Religione”
Un anelito trasparente di forza lo muoveva
nei passi come a indirizzarne le tracce
senza mostrarsi in volto ma solo ispirando
la direzione fino “…ad Atripalda,
non molto distante da Montevergine,
dal monte Virgiliano ove Virgilio vi pose un orto,
sul luogo ove un tempo fu di Cibele”
In quel Sacro suolo che conobbe la macchia
del sangue di atroci martiri per mano di Diocleziano
– che flagellò e consegnò a dolorosa e cruenta morte
anche San’Ippolisto, scarnificato tra le selve
tirato per le corna d’oro infuocate
reo di aver osato scagliare parole di condanna
contro il Dio pagano Giove –
trasse ardimento ed ispirazione luminosa
di propagare la fede di Cristo
nel solco della mortificazione assoluta
e del sacrificio carnale.
Il tempo aureo che gli mancava per compiere
la prima missione volle forgiarlo nelle maglie di ferro
che sostituirono i cerchi di cui si era cinto.
Da un soldato normanno a Salerno prese la corazza
a cui unì successivamente una cuffia
divenendo “miles Domini“.
Diede indi compimento ai desiderata del divino
muovendo le salde gambe in direzione
opposta al mare sul filo del destino.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO IV
V
Riannodati i misteri del dolore
alla sua giovane età nel viatico di ritorno
raggiunse per restare nelle terre dei lupi.
Verdi e fitti boschi a salutarlo, rami come braccia
protese al compimento di ciò che era già scritto.
Nel giro lungo di solstizi e apparse diverse lune
si fermò, nel 1118, ai piedi del Monte Partenio
in una piccola conca “creata dall’incontro di due
opposti declivi di monti” scintillò la metamorfosi
da pellegrino a eremita.

“Su quell’alta montagna, a 1270 metri sul mare
si fa costruire una piccola cella, ed ivi per un anno
rimane solo nella più assoluta solitudine, tutto dedito
alla più alta contemplazione, a contatto con orsi e con
lupi, che però non osano recargli alcun male”

Scorrendo negli occhi del cielo la storia
che si muoveva e l’accompagnava fedele
decise quindi di aprire le braccia all’adorazione
della Croce conficcata nel terreno
come a definire il locus ove assecondare
il moto dell’orizzonte che si apriva miracoloso
per accogliere ogni minimo dettaglio
o manifestazione della volontà suprema.
Ci furono notti di colloqui intensi con la natura
preci che si lasciavano andare sui crinali
come echi e richiami per le fiere
che mansuete si avvicinavano a quel posto calmo
in cui l’ascetico eremita si nutriva di contemplazione
Il tramonto sui drappi della penombra, il buio sfibrato
appena dal chiarore della luna, l’alba d’invocazione
alle benedizioni del creato, il canto degli uccelli
il volo nei pensieri di cherubini trasparenti
a tornire sorrisi di pace nel volto di Guglielmo
ogni cosa dettava parole di conoscenza, accettazione,
gratitudine per il nuovo cammino che faceva
da “fermo” nel corpo ampio della solitudine.
Pur tuttavia non riusciva a slegarsi dalla folla
anche se con forza, si era allontanato dal mondo,
nulla impediva o limitava la professione di fede
perché Dio chiamava e muoveva la sua voce
come araldo di serenità in ogni luogo
con toni cangianti e quindi calda
come manto di lana negli inverni gelidi sui monti
e fresca come acqua di torrente che si infila
nelle crepe del monte e diviene sorgente
per rinfrescare il plesso solare dell’estate.
“Eremita è uno che rinuncia a un mondo frantumato
per godere del mondo in maniera totale e senza
interruzioni.”
C’erano giorni in cui tutto parlava chiaramente:
il sole, le nubi, la luna, gli alberi, gli uccelli, il silenzio.
E Guglielmo, prendendo appunti, scrive
dentro la sua anima il libro più bello del mondo.
C’è quasi un’estasi nei boschi senza sentieri,
dove nessuno s’intromette e la natura esplode
nella magnificenza che il Creatore gli ha concesso.
Finanche le stelle sono pagine da incorniciare
come suppliche alla Madonna, alla madre di Cristo
figlia del suo stesso ventre, che si fece astro
e fiore di purezza nel suo cuore
con mani di seminatrice benevola intinse grazia
carità, misericordia, magnificenza.
Quella stessa madre che fu icona dell’Abbazia
a lei consacrata per amore di chi volle
eradicare radici per innestare rosari
e farne terreno fertile di affidamenti
conversioni, pentimenti e nuove identità di vissuti
per devoti e peccatori.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO V
VI
Eppure il richiamo dell’eremita scorre come fiume
tra le valli ed accumula passi sulle cime del Partenio
raggiunte da chi aveva nel cuore di vivere come lui
che, memore dei duri trascorsi, si preoccupò
di costruire celle per accogliere fratelli
prima ancora della primitiva chiesa
ed un ospizio per il ricovero dei pellegrini.
Fu così che l’eremita si ritrovò Abate
a capo di una congregazione di monaci
desiderosi d’immergersi nella Regula monachorum.
Dei pronunciamenti di San Benedetto
fece colonne marmoree per vincere l’accidia
una certa “noia” spirituale da combattere
con il cenobitismo: preghiera, lavoro, studio
un tempo definito Ora et labora
qualche passo appena lontana
dalle privazioni e mortificazioni imposte
dalla vita in solitudine scelta dagli asceti.
“Preghiera” come contemplazione del Salvatore
alla luce della Parola Sacra praticata
per sentire e credere comunitariamente
l’identità presente dei canti gregoriani a legare
funzioni e ascolto delle letture nel chiuso della cella,
nei luoghi inospitali disabitati ove Abbazie
edificavano per il compimento della quiete
nella controra dei Salmi a fabbricare gemme
d’indulgenze per la salvezza dai peccati.
Tre grandi assi che avrebbero arginato le tentazioni
Da adempiere con il giusto equilibrio sicché
quando uno prende il sopravvento sugli altri
il monachesimo cessa di essere benedettino.
Prescrizioni semplici ma severe imponevano
di rifuggire la contemplazione
non dediti unicamente alle preci
non liturgisti, sacrificando tutto all’Ufficio
né studiosi, né tecnici o né imprenditori
di qualsivoglia lavoro.
Guglielmo a queste si ispirava e su tutte
praticava l’esempio con raccomandazioni orali
rigoroso regime penitenziale e carità verso i bisognosi.
Ramificazioni floride della maestosa quercia
poi riconosciuta come Congregazione Verginiana.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO VI
VII
I mattoni per costruire e innalzare la Chiesa
tra le cime che non assecondavano l’impresa
vennero dai sacrifici e dall’amore che s’unirono
come malta per farne una forza sola
capace d’erigere mura accoglienti in cui ospitare
fedeli oranti in processione.
“…Guglielmo decise che la suddetta fosse dedicata
ad onore di Maria madre di Dio e sempre vergine.”
L’Abbazia di Montevergine nacque come consolazione
all’attesa quando il volto della Madonna
prese l’azzurro del cielo nel volo di due colombe
tra i boschi e le alture che parevano abitate
da un tempo senza tempo come di cristallo
e il freddo trasmigrò in calore accogliente
soffiando riparo negli orizzonti dei visitatori.
Venivano come spighe di grano i seguaci
del nuovo ordine ripetendo pelle a pelle
preghiere d’abbandono alla vita vorace del mondo
per prendere posto nella casa ampia della misericordia.
Eppure chi è abituato a camminare seguendo
la strada di nostro Signore freme per il lungo stazionare.
I piedi desiderosi di calzare il movimento della terra
in espansione rispetto a quei boschi
impongono slanci per ricominciare il viaggio.
Nel plenilunio voci angeliche e aria di maestrale
nella fiamma rilucente della natura
pretendevano devozione al rituale della rinascita
l’eremita avrebbe dovuto spogliarsi dei panni dell’Abate
per rimettere quelli “miseri” del pellegrino
riprendere la sua identità giovanile
seppur nel corpo della maturità.
Ad Alberto l’opera eretta in Abbazia affida
ricolmo l’animo di mappe e strade
ad “andare” riprese per diffondere il nuovo ordine
“Dall’Irpinia al Sannio, dalla Lucania alle Puglie
alla Sicilia. Principi o poveri in canna, chi lo incontra
ne resta affascinato. Le storie parlano
di segni miracolosi. Riappacificò i signori Normanni,
l’uno contro l’altro armati. Per il bene del popolo
divenne confessore di Re Ruggero II d’Altavilla,
re di Sicilia; dal Re ricevette i mezzi per costruire
chiese e monasteri”

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO VII
VIII
Dei tanti segni si narra e si lascia in pegno
alla posterità degli uomini e delle donne.
Un giorno la dura legge della natura catapultò
l’asino di Guglielmo nelle fauci di un lupo affamato.
Il povero animale venne azzannato, sbranato
lasciando manchevole il lavoro di traino
ma il Santo, senza indulgere sul perdono
lo costrinse a mutare l’animo violento in mansueto
e divenne esso stesso “bestia da soma”.
Le sue mani avevano impresse le virtù di Cristo
riuscivano a mutare le tenebre in luce salvifica
che mondava infermità come ai ciechi diede l’aurora
a impuri consegnava coscienze limpide
a chi non credeva nelle sue doti trasecolava distese
di verità e consapevolezza che spingevano altrove
le plumbee critiche dei detrattori.
Di altri prodigi i testimoni raccontano
come della tentazione di una meretrice pagata
per mettere alla prova il suo saio di beatitudine
eppure Guglielmo mosse i piedi nella cruda brace
fiammante senza ricevere alcuna piaga
e della donna operò la repentina conversione
tal che volle consacrarsi monaca a Venosa.
Come si muovono i venti ad allungare le fronde
e staccare le foglie nel viatico dei tempi
così partì il beato Guglielmo dal Monte Cognato
giungendo in una valle chiamata Cofana scegliendo
un grande albero come sua cella e luogo di preci.
C’era una cornice nei suoi sguardi lungimiranti
nel silenzio che lo portava a percepire
scritture prima piccole e poi maestose
irradiate nelle necessità di costruire
nuovi alloggi per monaci e suore
per consentire di abbracciare voci nuove
di affidamento e servitù al Vangelo e ai Salmi.
In quel perimetro definito eppure ampio
sino a ricomprendere una comunità mista
sorse la cittadella monastica del Santissimo Salvatore.
Il suolo ricevuto in dono dal Ruggero
signore normanno della vicina Monticchio
tra Sant’Angelo dei Lombardi e Rocca San Felice.
Innovando l’animo e la materia religiosa
affidò l’autorità suprema ad una donna: la Badessa.
Ai monaci era affidato il servizio liturgico
unito alla cura amministrativa.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO VIII
IX
Lo steccato che separa la terra dal Paradiso
si fece sempre più visibile e attrattivo come simbolo
di resa per accogliere la pecorella prediletta
ove pascolare serena dopo tanto peregrinare.
La divina bellezza cantava richiami nel sole
e nei lustri della notte come ali d’angelo
a volersi innestare nel corpo prossimo al trapasso.
Qui Guglielmo, nel richiamo del Salvatore
alla sorgente della vita sconfinata accolse
“sorella morte” e si spense come candela al soffio
divino tra le monache a lui devote del Goleto.
Le sue membra febbricitanti e malate
vennero deposte per sua volontà dinanzi alla Croce.
In quell’unione sacra tra mistero e penitenza
e gli occhi rivolti al flagellato corpo di Cristo
senza chiedere intercessioni e guarigione
s’addormentò nella scintilla del ricordo.
Questo lo portò repentino nel sentiero, ora erboso
fresco, senza inciampi o polvere arida di fatica
dei suoi tanti natali di fondazione pregando
nei luoghi che ebbe a visitare, sostare e nelle pietre
che mosse come lievito madre per impastare
devoti culti dedicati all’Altissimo e alla Madonna.
Ebbe la carezza di questa sulle palpebre a chiuderle
l’amore materno a curarlo nel viaggio verso la luce
vestito di candore, caduto il saio di povertà
le maglie di ferro ricolme di ruggine e privazioni
il corpo rinvigorito dal balsamo dell’eternità.
Amare il prossimo senza pretese di riconoscenza
e dare senza ricevere alcuna carità
limitare i pianti nella risacca della cattiveria
farne beatitudine e offrila come pegno
per la salvezza dell’umanità.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO IX
X
Non tutto finì con la chiusura del sepolcro che la
badessa Agnese commissionò ad uno scultore di
nome Urso la cui epigrafe così (ancora) recita.

“E’ sepolto in questo monumento un uomo santo,
attraverso il quale mandano profumo a Cristo i fiori
dell’onestà. Visse in queste terre devoto alla Trinità e
amico dell’unico vero Dio. Eremita rispetto ai piccoli re
(della terra), ebbe nome Guglielmo, ed ora gode
onorato tra i celesti. Povero, piegò la carne con la
ricchezza della grazia. Ora è ospite degli eterni conviti.
Ampliò questa basilica la badessa Agnese. Fu lei che in
questa tomba collocò le sacre spoglie. Qui si celebrano
le laudi, l’ufficio e la messa. Dio guidi noi altri verso i
premi promessi. Quest’opera insigne fu realizzata da
Urso. L’artista la eseguì con le sue stesse mani. Colui
che ha creato il popolo di questo luogo o lo guidi con i
suoi meriti là dove lo ha destinato.”

Le opere di Guglielmo lo innalzarono sull’altare
dei Santi e restarono a testimonianza perenne
della sua grandezza insieme all’idioma del divino
che opera attraverso lui e dei suoi seguaci
strumenti per la consacrazione e l’accensione
della fede come primo riparo ai mali del mondo.
Le spoglie del Beato tornarono dopo lunghe stagioni
nella primordiale casa, l’Abbazia di Montevergine,
quella che costruì come incipit e segno
di ancoraggio e adempimento ai tanti progetti
che Dio aveva impresso a fuoco nel destino
del Patrono primario dell’Irpinia.

ASCOLTA GUGLIELMO - POEMETTO X

Emanuela Sica

Incipit 

Quale destino è scritto nel cuore dell’uomo
se questo viene infiammato dalla voce di Nostro Signore
che dall’indaco muove figure di luce tra le nubi
canti d’amore a scendere nei cunicoli dei pensieri
e germogliare floridi nelle vene rianimando
ossa, muscoli, pelle nutriti dal chiarore
spostando lontane, mille e mille anni, le tenebre?
In questo carme si narra di Guglielmo da Vercelli
che vestì i panni del pellegrino per devota speranza
reale sacrificio cucì nei sentieri del suo corpo
per edificare un tempio alla fede che incrollabile
maturava nelle albe come tralci di vite
preziosi doni da portare alle generazioni
come testamenti di fede.
Nel suo animo, ancorché acerbo, trovò rifugio
lo Spirito Santo che ampliava, giorno per giorno,
le sue ali nei respiri insufflando ossigeno di beatitudine
sino a farne il suo più consacrato dei servitori.

I
In alleanza con il giglio della Vergine
nel silenzio che plasma universi nella mente
di chi si genuflette ai misteri del Cristo
non tarda vermiglia l’alba di consacrazione
all’ascolto della parola che diventa Sacra sulla lingua
muovendosi come litanie tra rose e spine.
Antico corpo di preghiera nelle membra di ragazzo
sì liquefa negli occhi al riflesso del sole che mostra
eserciti d’angeli a placare le acque dai demoni
al passaggio della storia sul sentiero dell’andare.
Guglielmo era questo abitare il movimento
seguiva il disegno delle ginestre e dei tratturi
comprendeva echi d’eternità nei trifogli
nelle querce che fissavano le lontananze
nei fuochi fatui della notte.
La sua tela dipingeva pellegrino
senza indugiare sul coraggio di perdersi nei vuoti
sfamandosi con la presenza di Dio.
Per raggiungere Santiago de Compostela immolò
le morbide piante dei piedi al dolore,
ricucendo pietre, preghiere, polvere, pentimento, senza sosta.
In cammino, nel sentiero della grazia che si abbandona
alla volontà di compiacere l’Altissimo, egli fu il primo
a compiere il trapasso spirituale dell’uomo al Santo
precedendo la scelta di Francesco ad Assisi.
Sconfinato era il mistero di luce che si compiva
nella purezza del suo animo destinato a tessere
grandi intrecci con le vite altrui e con quelle dei Santi.
Prim’ancora di quel viaggio ebbe alloggio a Melfi
ove delle Sacre scritture fece sfoggio mirabile
nel puntale del linguaggio come se quelle parole
fossero già scritte nella memoria dello spirito
e solo poi impresse sulle preziose pergamene
ricevute in dono come gratitudine.
Allontanatosi da questi luoghi fu accolto
come fratello ed ospite da Pietro “timoroso di Dio”
sul Monte Solicolo ove, leggenda narra, che
mosso a compassione “rianimò” le pupille spente
di un uomo cieco ridandogli la vista.
Chi dei testimoni esternò il prodigio e chi la taumaturgia
fusero la sua fama a renderne illustre il nome
già santo prima dei tempi.

II
Dei suoi quattordici anni si liberò presto
come di un abito inutile, rinunciò agli orpelli
al casato, ai titoli nobiliari, rivestendosi di un grezzo saio
e nudi piedi nel 1099.
Furono cinque anni di passi, pane, acqua, cilicio,
colloquiando con Dio e la fiamma ardente di Cristo
nell’iride accesa dalla fede senza il fardello della paura.
Nel giro arioso di scirocco e richiami alla devozione
volle darsi pentimento “macerando la carne
durante il cammino in uno al supplizio del digiuno.
Quand’ebbe accesso alla destinazione anelata
e portò sull’altare di Santiago le perle sanguinanti
dei suoi affanni unite alle preci costanti
per la salvezza dell’umanità dal peccato
non mise in conto la necessità d’interrompere
la peregrinazione bensì scrutò lontano e oltre
avendo intenzione d’imbarcarsi per Gerusalemme.
Del che discese lungo la dorsale desideroso di salpare
per la più Santa delle terre.
A Ginosa, conobbe Giovanni da Matera
chiamandolo per nome come amico
senza desistere dal viaggio seppur esortato
dal futuro Santo che gli anticipò sventura.
Non comprese verità celata nei segni
screziati d’inchiostro rappreso nei cieli
come porte che s’aprono alla predizione
perché nessun piano regge il confronto
con le architetture di Dio, con le improvvise svolte
o curve o dirupi in cui cade ma si salva chi a lui s’affida.
In Puglia s’arenò il viaggio per violento assalto.
Delinquenti lo presero, depredandolo.
Da quella triste rapina delle poche cose che aveva
l’antitesi ricevette come dono, comprese la volontà
di quella mano Onnipotente che muove tutto
che dalla cenere fredda rinvigorisce il fuoco.
Architravi presero vita davanti ai suoi occhi
terra e firmamento schiusero i miraggi
in concretezza, come argilla che riceve forma
dimensione precisa nei palmi trasparenti di Dio
consegnata come destino nelle mani del pellegrino.
Si occupò di Guglielmo, Giovanni, che curò le ferite
ricomponendo le membra doloranti
edificando la necessità di starsene calmo
senza fuggire nel vento e stringendo alleanze
con la terra italica e spezzando il pane del Cristo
come servo allontanando l’idea di partire.

III
Muschio crebbe e si avviluppò nello sguardo
assorbendo il desiderio che spirava da Gerusalemme
l’orizzonte di terre più vicine prese lo spirito
senza traversare le acque, ricamando preci e miracoli
tra le acerbe montagne del sud, le più disabitate.
Un segno più grande resta impresso nella carne
capovolgendo la missione altrove in assoluta quiete
e pegno di restanza che bevve come calice
d’affidamento alla volontà di Dio.
Nel guarire dalle innumerevoli lacerazioni
che lacunari sofferenze infliggevano
anche alla sua fermezza di allontanarsi da quei confini
ebbe a conversare con Giovanni e un’apparizione.
I due verbi si fecero incendi delle incertezze
cantici soavi di sinapsi sfibrarono la rotta
divelte le nebbie dei dubbi apparì categorica
la richiesta del Signore che esigeva di fermare
il futuro in Italia e, per confutare i suoi dubbi
come vene d’edera in visione all’iride
ramificò l’abbandono alla volontà del Re del mondo
seminando, nella mente fertile, l’idea
dell’annunciazione alla Vergine in filari di piante
e croci sui monti più alti per simboleggiare
la Congregazione nascente.

IV
Licenziatosi dall’Abbate Giovanni
nel sentiero del cammino in convivio
tra recesso e suppliche consumò un anno
vedendo e osservando ove poter edificare
la parola di Dio e farne altare in Chiese e Monasteri
sperando di intercettare un segno ove
dar principio alla nuova Religione
Un anelito trasparente di forza lo muoveva
nei passi come a indirizzarne le tracce
senza mostrarsi in volto ma solo ispirando
la direzione fino “…ad Atripalda,
non molto distante da Montevergine,
dal monte Virgiliano ove Virgilio vi pose un orto,
sul luogo ove un tempo fu di Cibele”
In quel Sacro suolo che conobbe la macchia
del sangue di atroci martiri per mano di Diocleziano
– che flagellò e consegnò a dolorosa e cruenta morte
anche San’Ippolisto, scarnificato tra le selve
tirato per le corna d’oro infuocate
reo di aver osato scagliare parole di condanna
contro il Dio pagano Giove –
trasse ardimento ed ispirazione luminosa
di propagare la fede di Cristo
nel solco della mortificazione assoluta
e del sacrificio carnale.
Il tempo aureo che gli mancava per compiere
la prima missione volle forgiarlo nelle maglie di ferro
che sostituirono i cerchi di cui si era cinto.
Da un soldato normanno a Salerno prese la corazza
a cui unì successivamente una cuffia
divenendo “miles Domini“.
Diede indi compimento ai desiderata del divino
muovendo le salde gambe in direzione
opposta al mare sul filo del destino.

V
Riannodati i misteri del dolore
alla sua giovane età nel viatico di ritorno
raggiunse per restare nelle terre dei lupi.
Verdi e fitti boschi a salutarlo, rami come braccia
protese al compimento di ciò che era già scritto.
Nel giro lungo di solstizi e apparse diverse lune
si fermò, nel 1118, ai piedi del Monte Partenio
in una piccola conca “creata dall’incontro di due
opposti declivi di monti”
scintillò la metamorfosi
da pellegrino a eremita.

“Su quell’alta montagna, a 1270 metri sul mare
si fa costruire una piccola cella, ed ivi per un anno
rimane solo nella più assoluta solitudine, tutto dedito
alla più alta contemplazione, a contatto con orsi e con
lupi, che però non osano recargli alcun male”

Scorrendo negli occhi del cielo la storia
che si muoveva e l’accompagnava fedele
decise quindi di aprire le braccia all’adorazione
della Croce conficcata nel terreno
come a definire il locus ove assecondare
il moto dell’orizzonte che si apriva miracoloso
per accogliere ogni minimo dettaglio
o manifestazione della volontà suprema.
Ci furono notti di colloqui intensi con la natura
preci che si lasciavano andare sui crinali
come echi e richiami per le fiere
che mansuete si avvicinavano a quel posto calmo
in cui l’ascetico eremita si nutriva di contemplazione
Il tramonto sui drappi della penombra, il buio sfibrato
appena dal chiarore della luna, l’alba d’invocazione
alle benedizioni del creato, il canto degli uccelli
il volo nei pensieri di cherubini trasparenti
a tornire sorrisi di pace nel volto di Guglielmo
ogni cosa dettava parole di conoscenza, accettazione,
gratitudine per il nuovo cammino che faceva
da “fermo” nel corpo ampio della solitudine.
Pur tuttavia non riusciva a slegarsi dalla folla
anche se con forza, si era allontanato dal mondo,
nulla impediva o limitava la professione di fede
perché Dio chiamava e muoveva la sua voce
come araldo di serenità in ogni luogo
con toni cangianti e quindi calda
come manto di lana negli inverni gelidi sui monti
e fresca come acqua di torrente che si infila
nelle crepe del monte e diviene sorgente
per rinfrescare il plesso solare dell’estate.
“Eremita è uno che rinuncia a un mondo frantumato
per godere del mondo in maniera totale e senza
interruzioni.”
C’erano giorni in cui tutto parlava chiaramente:
il sole, le nubi, la luna, gli alberi, gli uccelli, il silenzio.
E Guglielmo, prendendo appunti, scrive
dentro la sua anima il libro più bello del mondo.
C’è quasi un’estasi nei boschi senza sentieri,
dove nessuno s’intromette e la natura esplode
nella magnificenza che il Creatore gli ha concesso.
Finanche le stelle sono pagine da incorniciare
come suppliche alla Madonna, alla madre di Cristo
figlia del suo stesso ventre, che si fece astro
e fiore di purezza nel suo cuore
con mani di seminatrice benevola intinse grazia
carità, misericordia, magnificenza.
Quella stessa madre che fu icona dell’Abbazia
a lei consacrata per amore di chi volle
eradicare radici per innestare rosari
e farne terreno fertile di affidamenti
conversioni, pentimenti e nuove identità di vissuti
per devoti e peccatori.

VI
Eppure il richiamo dell’eremita scorre come fiume
tra le valli ed accumula passi sulle cime del Partenio
raggiunte da chi aveva nel cuore di vivere come lui
che, memore dei duri trascorsi, si preoccupò
di costruire celle per accogliere fratelli
prima ancora della primitiva chiesa
ed un ospizio per il ricovero dei pellegrini.
Fu così che l’eremita si ritrovò Abate
a capo di una congregazione di monaci
desiderosi d’immergersi nella Regula monachorum.
Dei pronunciamenti di San Benedetto
fece colonne marmoree per vincere l’accidia
una certa “noia” spirituale da combattere
con il cenobitismo: preghiera, lavoro, studio
un tempo definito Ora et labora
qualche passo appena lontana
dalle privazioni e mortificazioni imposte
dalla vita in solitudine scelta dagli asceti.
“Preghiera” come contemplazione del Salvatore
alla luce della Parola Sacra praticata
per sentire e credere comunitariamente
l’identità presente dei canti gregoriani a legare
funzioni e ascolto delle letture nel chiuso della cella,
nei luoghi inospitali disabitati ove Abbazie
edificavano per il compimento della quiete
nella controra dei Salmi a fabbricare gemme
d’indulgenze per la salvezza dai peccati.
Tre grandi assi che avrebbero arginato le tentazioni
Da adempiere con il giusto equilibrio sicché
quando uno prende il sopravvento sugli altri
il monachesimo cessa di essere benedettino.
Prescrizioni semplici ma severe imponevano
di rifuggire la contemplazione
non dediti unicamente alle preci
non liturgisti, sacrificando tutto all’Ufficio
né studiosi, né tecnici o né imprenditori
di qualsivoglia lavoro.
Guglielmo a queste si ispirava e su tutte
praticava l’esempio con raccomandazioni orali
rigoroso regime penitenziale e carità verso i bisognosi.
Ramificazioni floride della maestosa quercia
poi riconosciuta come Congregazione Verginiana.

VII
I mattoni per costruire e innalzare la Chiesa
tra le cime che non assecondavano l’impresa
vennero dai sacrifici e dall’amore che s’unirono
come malta per farne una forza sola
capace d’erigere mura accoglienti in cui ospitare
fedeli oranti in processione.
“…Guglielmo decise che la suddetta fosse dedicata
ad onore di Maria madre di Dio e sempre vergine.”
L’Abbazia di Montevergine nacque come consolazione
all’attesa quando il volto della Madonna
prese l’azzurro del cielo nel volo di due colombe
tra i boschi e le alture che parevano abitate
da un tempo senza tempo come di cristallo
e il freddo trasmigrò in calore accogliente
soffiando riparo negli orizzonti dei visitatori.
Venivano come spighe di grano i seguaci
del nuovo ordine ripetendo pelle a pelle
preghiere d’abbandono alla vita vorace del mondo
per prendere posto nella casa ampia della misericordia.
Eppure chi è abituato a camminare seguendo
la strada di nostro Signore freme per il lungo stazionare.
I piedi desiderosi di calzare il movimento della terra
in espansione rispetto a quei boschi
impongono slanci per ricominciare il viaggio.
Nel plenilunio voci angeliche e aria di maestrale
nella fiamma rilucente della natura
pretendevano devozione al rituale della rinascita
l’eremita avrebbe dovuto spogliarsi dei panni dell’Abate
per rimettere quelli “miseri” del pellegrino
riprendere la sua identità giovanile
seppur nel corpo della maturità.
Ad Alberto l’opera eretta in Abbazia affida
ricolmo l’animo di mappe e strade
ad “andare” riprese per diffondere il nuovo ordine
“Dall’Irpinia al Sannio, dalla Lucania alle Puglie
alla Sicilia. Principi o poveri in canna, chi lo incontra
ne resta affascinato. Le storie parlano
di segni miracolosi. Riappacificò i signori Normanni,
l’uno contro l’altro armati. Per il bene del popolo
divenne confessore di Re Ruggero II d’Altavilla,
re di Sicilia; dal Re ricevette i mezzi per costruire
chiese e monasteri”
VIII
Dei tanti segni si narra e si lascia in pegno
alla posterità degli uomini e delle donne.
Un giorno la dura legge della natura catapultò
l’asino di Guglielmo nelle fauci di un lupo affamato.
Il povero animale venne azzannato, sbranato
lasciando manchevole il lavoro di traino
ma il Santo, senza indulgere sul perdono
lo costrinse a mutare l’animo violento in mansueto
e divenne esso stesso “bestia da soma”.
Le sue mani avevano impresse le virtù di Cristo
riuscivano a mutare le tenebre in luce salvifica
che mondava infermità come ai ciechi diede l’aurora
a impuri consegnava coscienze limpide
a chi non credeva nelle sue doti trasecolava distese
di verità e consapevolezza che spingevano altrove
le plumbee critiche dei detrattori.
Di altri prodigi i testimoni raccontano
come della tentazione di una meretrice pagata
per mettere alla prova il suo saio di beatitudine
eppure Guglielmo mosse i piedi nella cruda brace
fiammante senza ricevere alcuna piaga
e della donna operò la repentina conversione
tal che volle consacrarsi monaca a Venosa.
Come si muovono i venti ad allungare le fronde
e staccare le foglie nel viatico dei tempi
così partì il beato Guglielmo dal Monte Cognato
giungendo in una valle chiamata Cofana scegliendo
un grande albero come sua cella e luogo di preci.
C’era una cornice nei suoi sguardi lungimiranti
nel silenzio che lo portava a percepire
scritture prima piccole e poi maestose
irradiate nelle necessità di costruire
nuovi alloggi per monaci e suore
per consentire di abbracciare voci nuove
di affidamento e servitù al Vangelo e ai Salmi.
In quel perimetro definito eppure ampio
sino a ricomprendere una comunità mista
sorse la cittadella monastica del Santissimo Salvatore.
Il suolo ricevuto in dono dal Ruggero
signore normanno della vicina Monticchio
tra Sant’Angelo dei Lombardi e Rocca San Felice.
Innovando l’animo e la materia religiosa
affidò l’autorità suprema ad una donna: la Badessa.
Ai monaci era affidato il servizio liturgico
unito alla cura amministrativa.

IX
Lo steccato che separa la terra dal Paradiso
si fece sempre più visibile e attrattivo come simbolo
di resa per accogliere la pecorella prediletta
ove pascolare serena dopo tanto peregrinare.
La divina bellezza cantava richiami nel sole
e nei lustri della notte come ali d’angelo
a volersi innestare nel corpo prossimo al trapasso.
Qui Guglielmo, nel richiamo del Salvatore
alla sorgente della vita sconfinata accolse
sorella morte” e si spense come candela al soffio
divino tra le monache a lui devote del Goleto.
Le sue membra febbricitanti e malate
vennero deposte per sua volontà dinanzi alla Croce.
In quell’unione sacra tra mistero e penitenza
e gli occhi rivolti al flagellato corpo di Cristo
senza chiedere intercessioni e guarigione
s’addormentò nella scintilla del ricordo.
Questo lo portò repentino nel sentiero, ora erboso
fresco, senza inciampi o polvere arida di fatica
dei suoi tanti natali di fondazione pregando
nei luoghi che ebbe a visitare, sostare e nelle pietre
che mosse come lievito madre per impastare
devoti culti dedicati all’Altissimo e alla Madonna.
Ebbe la carezza di questa sulle palpebre a chiuderle
l’amore materno a curarlo nel viaggio verso la luce
vestito di candore, caduto il saio di povertà
le maglie di ferro ricolme di ruggine e privazioni
il corpo rinvigorito dal balsamo dell’eternità.
Amare il prossimo senza pretese di riconoscenza
e dare senza ricevere alcuna carità
limitare i pianti nella risacca della cattiveria
farne beatitudine e offrila come pegno
per la salvezza dell’umanità.

X
Non tutto finì con la chiusura del sepolcro che la
badessa Agnese commissionò ad uno scultore di
nome Urso la cui epigrafe così (ancora) recita.

“E’ sepolto in questo monumento un uomo santo,
attraverso il quale mandano profumo a Cristo i fiori
dell’onestà. Visse in queste terre devoto alla Trinità e
amico dell’unico vero Dio. Eremita rispetto ai piccoli re
(della terra), ebbe nome Guglielmo, ed ora gode
onorato tra i celesti. Povero, piegò la carne con la
ricchezza della grazia. Ora è ospite degli eterni conviti.
Ampliò questa basilica la badessa Agnese. Fu lei che in
questa tomba collocò le sacre spoglie. Qui si celebrano
le laudi, l’ufficio e la messa. Dio guidi noi altri verso i
premi promessi. Quest’opera insigne fu realizzata da
Urso. L’artista la eseguì con le sue stesse mani. Colui
che ha creato il popolo di questo luogo o lo guidi con i
suoi meriti là dove lo ha destinato.”

Le opere di Guglielmo lo innalzarono sull’altare
dei Santi e restarono a testimonianza perenne
della sua grandezza insieme all’idioma del divino
che opera attraverso lui e dei suoi seguaci
strumenti per la consacrazione e l’accensione
della fede come primo riparo ai mali del mondo.
Le spoglie del Beato tornarono dopo lunghe stagioni
nella primordiale casa, l’Abbazia di Montevergine,
quella che costruì come incipit e segno
di ancoraggio e adempimento ai tanti progetti
che Dio aveva impresso a fuoco nel destino
del Patrono primario dell’Irpinia.

Immagini

Maiolica votiva dedicata a San Guglielmo da Vercelli(Foto.A.Bavusi) in passato presente presso la Chiesa di Santa Maria di Pierno fondata secondo la tradizione da Guglielmo (San Fele)

Cripta Chiesa S.S. Trinità di Venosa: S. Antonio Abate (IX-X sec)

Cartografia del Tratturo (da quadro di unione catastali)

Lastra tombale di San Guglielmo un tempo presso il monastero del Goleto e successivamente trafugata o dispersa (immagine tratta da V. De Duonni. Tra le immagini e il testo del “De vita et obitu sancti Guglielmi: raffigurazione del santo vercellese fondatore di Montevergine”. Unisa, 2017)

Schizzo di San Guglielmo fatto da G.B.Guarini presso la cappella rupestre di S.Margherita. Tatto dal testo “Curiosità d’arte medievale nel melfese” – anno 1900